Le redazioni della «Vita» alfieriana (1953)

Recensione a V. Alfieri, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-giugno 1953, pp. 205-212; poi in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963 (19763), in W. Binni, Saggi alfieriani (1969 e 1981) e in W. Binni, Studi alfieriani (1995).

Le redazioni della «Vita» alfieriana

Nella edizione critica delle Opere dell’Alfieri promossa dalla città e dalla provincia di Asti e affidata al Centro Nazionale di Studi Alfieriani, Luigi Fassò (succeduto al Calcaterra nella direzione del Centro) ha pubblicato, in maniera davvero degna del piú alto elogio, la Vita, con gli scritti autobiografici che a questa si collegano. Poche volte un’edizione critica ha, come in questo caso, un valore che esorbita dal puro campo filologico ed apre la possibilità di un discorso critico di vasta portata.

Il Fassò (che già nel 1922 aveva dato nella collezione dei classici Sansoni un’importante edizione della Vita e che piú recentemente aveva migliorato il suo lavoro editoriale nel testo della Vita dato nella collana dei classici UTET, 1949) ci offre ora un testo definitivo per quanto riguarda l’ultima stesura del capolavoro alfieriano (e per quanto riguarda i Giornali, gli Annali – cui si restituisce l’originario titolo: L’uom propone, e Dio dispone –, il Rendimento di conti da darsi al Tribunal d’Apollo, il Prospetto cronologico della «Vita», la Prefazione alle Chiacchiere, tutti migliorati rispetto alle precedenti edizioni) e raccoglie nella Appendice gli altri essenziali Documenti vari autobiografici fra i quali da notare la lettera a Penelope Pitt (recentemente ritrovata in una oscura rivista inglese ottocentesca e pubblicata nel «Giornale storico della letteratura italiana» da E.R. Vincent[1]); un Catalogo di tutte le opere di Vittorio Alfieri, nel 1798, inedito; la lettera del Paciaudi, nel suo restituito testo originale; il bigliettino fiorentino «ai visitatori importuni», inedito. E basterebbe scorrere la tavola degli errori e degli arbitrii corretti nella nuova edizione (pp. XL-XLIV dell’Introduzione), con notevoli rettifiche non solo formali, ma di date, per comprendere la grande utilità di questo lavoro filologico cosí accurato, giustificato in tutti i suoi particolari, e tale da permettere per il testo della Vita e per gli altri documenti autobiografici, (alla cui cura già tanto aveva dato l’edizione lemonnieriana del ’28 di F. Maggini) uno studio piú sicuro nei riguardi della lingua e dello stile alfieriano.

Ma per questo studio e per una generale valutazione della Vita alfieriana, come documento autobiografico e come opera d’arte, la nuova edizione del Fassò aggiunge un testo di eccezionale importanza: quella stesura prima del grande libro, rimasta inedita fino ad oggi perché considerata come un semplice abbozzo, una “brutta copia” da utilizzare al massimo, come fece in parte il Teza, per integrare gli ultimi capitoli dell’Epoca IV. Il Fassò, rileggendo il trascurato manoscritto (ms. alfieriano n. 13 della Laurenziana di Firenze), si accorse che si trattava di una trascrizione autografa della prima stesura dell’opera: trascrizione accurata e meditata da un primo abbozzo distrutto, anche se considerata ancora bisognosa di successivi ripensamenti a distanza di anni ed attuata con una certa fretta, imposta forse dal timore dei tempi «burrascosi» e della sorte che poteva toccare al poeta e alle sue carte nella Parigi rivoluzionaria del 1790.

La prima conclusione notevole di carattere critico che si può trarre da questa autentica scoperta è indicata già dallo stesso editore, che vede nella vera natura del preteso abbozzo «la conferma che la Vita non fu l’improvvisazione febbrile di un “invasato” dall’impeto creativo» (pp. XIV-XV), la prova che il lavoro della Vita ebbe un inizio precedente alla data d’inizio della stesura posseduta, aprile 1790, dové risalire almeno all’anno prima, e che comunque «un racconto di tanta mole e di tanta altezza spirituale» non fu certo ideato e compiuto, nella forma provvisoria, ma già cosí elaborata, in 54 giorni «da un artista tormentato come l’Alfieri» (p. XV). Purtroppo rimangono sempre a noi sconosciuti l’ambito del lavorio precedente di appunti e di abbozzi, la precisa estensione di un iniziale disegno e, chissà, di fasi intermedie anche piú tormentate di un semplice abbozzo ridotto a pulitura e compiutezza nel ms. 13. Ché anzi le osservazioni del Fassò circa la stessa maniera di stesura di questo manoscritto (come di chi «freddamente trascriva calcolando passo passo lo spazio di cui dispone quasi per risparmio di carta», p. XXIII, e di chi, persino nelle aggiunte marginali «nitidissime», abbia di fronte un testo già fissato e aggiunga frasi per distrazione saltate ed esse stesse quindi copiate) farebbero pensare alla copia di una stesura già ulteriore rispetto ai primitivi appunti ed abbozzi, e postulerebbero un lungo e complesso lavoro negli anni 1789-1790.

Ma è evidente come l’utilità dell’edizione di questa stesura del 1790 consista soprattutto nella possibilità offerta agli studiosi di confrontarla con il testo definitivo e di ricavarne conclusioni critiche circa la qualità dell’elaborazione alfieriana, circa il precisarsi del suo linguaggio, l’accentuarsi di alcuni temi ispirativi, di atteggiamenti degli ultimi anni. Una preziosa possibilità che ben corrisponde a quell’esigenza di critica “dinamica” cosí forte (anche se con varie direzioni e limitazioni) negli studi contemporanei: dico critica dinamica pensando anche fuori del campo della critica letteraria alle interessanti indagini del Ragghianti (a proposito della Deposizione di Raffaello ad esempio) e accentuando nelle recenti discussioni e polemiche sulla “critica delle varianti” il motivo storicistico, che assegna a tali ricerche una funzione preparatoria (e tuttavia essenziale) al giudizio critico, alla ricostruzione di uno sviluppo di personalità poetica studiata centralmente nei suoi motivi ispirativi e nella sua tensione all’espressione, al valore, nel pieno della vita storica e non in un pallido limbo di vocabolario letterario. In questa direzione la pubblicazione del ms. 13 diviene davvero quanto mai tempestiva.

Già lo stesso editore (mentre attraverso un caso minuto, ma assai interessante, mostra come la prima stesura possa chiarire dubbi e problemi biografici) indica, alle pp. LII-LIII dell’Introduzione, direzioni di studio circa «la lunga elaborazione stilistica che ha condotto l’Alfieri al capolavoro», soprattutto nei «passi in cui si scorge da quali germi si siano sviluppate certe grandi pagine della Vita, e [in] quelli che ci offrono diverse sfumature di sentimento e di giudizî, o atteggiamenti di lingua e di pensiero che la Vita non ci lasciava indovinare».

Quando l’Alfieri riprese a Firenze la prima stesura della Vita, ridusse il valore della nuova elaborazione (che mantenne in ogni riferimento cronologico, malgrado i cambiamenti, alla data della prima stesura) a quello di una ripulitura formale: «a poco a poco lo andai ricopiando, e un pocolino ripulendo, perché riuscisse chiaro e pianissimo lo stile» (I, p. 285)[2].

Ma, in realtà, si trattò di una revisione e di uno sviluppo quanto mai notevoli, anche se lo schema essenziale non cambiò e non cambiò lo spirito fondamentale dell’opera nella sua volontà di indagine esemplare di una prepotente vita eroica e poetica, di recupero del passato in un ritratto romantico atteggiato in movimento narrativo, e ricco di una illuminazione particolare del «cupo, ove gli affetti han regno» e delle origini di motivi lirici di rime e tragedie nella loro fonte di sentimenti e di esperienza concreta (su cui tanto ci dicono poi con maggiore semplicità le lettere).

Mancano vere aggiunte di fatti non registrati nella prima stesura e rare sono le soppressioni, che riguardano soprattutto le proteste di assoluta veridicità, tolte (come a p. 123, I, rispetto a p. 104, II) come accentuazione esagerata di un motivo preliminarmente chiarito. Tuttavia i segni della rielaborazione non riguardano solo la precisazione stilistica, comunque sempre acutissima e fortemente migliorativa anche dove riguarda particolari minimi in motivi già adeguatamente sviluppati ed elaborati, ché il passaggio degli anni, il maggiore dominio del proprio animo (e insieme il rafforzarsi di alcuni motivi polemici negli ultimi anni di vita) hanno portato nella nuova stesura modificazioni tutt’altro che trascurabili ed importanti anche a sottolineare certe linee di evoluzione degli atteggiamenti alfieriani.

Si pensi anzitutto, su di un piano piú scoperto, al deciso inasprirsi del motivo antifrancese, cosí chiaro nel capitolo VI dell’Epoca II. Nella prima stesura l’episodio del maestro di ballo francese (che con la «certa sua aria civilmente soverchiatrice e sprezzante» poté provocare nel ragazzo «quel pregiudizio disfavorevole ch’io ebbi poi sempre per quella nazione, che pure ha tante piacevoli e ricercabili qualità»), complicato dall’impressione di infantile disgusto per il belletto delle dame francesi passate da Asti con la duchessa di Parma e dalla fanciullesca conclusione sullo scarso valore guerresco dei francesi fatti prigionieri in Asti, sono ricordati per spiegare sí il sentimento di antipatia per i francesi, ma anche per limitarlo nella sua radice poco ragionevole, sicché la conclusione («E son certo, che chi ricercasse poi in se stesso maturo, le cagioni degli odi, od amori per gl’individui, e per i diversi popoli, ritroverebbe miserie forse pari a queste mie. Oh picciola cosa è pur l’uomo!») suona come limitazione del suo sentimento istintivo contro cui, come dice sopra, «bisogna sempre combattere per esser giusti». Invece nel testo definitivo, mentre gli accenti di violenta antipatia per i francesi si precisano nei riguardi dei tre episodi (dal ballo Minuè si conclude che «tutte le cose loro [...] altro non sono che un perpetuo e spesso mal ballato Minuè»; le dame francesi imbellettate divengono «ceffi francesi»; i soldati fatti prigionieri in Asti sono raffigurati «presi come dei vigliacchi senza far punto difesa, essendovisi portati, al solito, cosí arrogantemente e tirannicamente prima di esserne scacciati»), la conclusione tende a spiegare le origini precoci del suo misogallismo chiamandole «primi leggerissimi semi», e non svalutandoli come «miserie» (I, pp. 48-49; Il, pp. 45-46).

E chiaro riflesso di questo maturato misogallismo è il notevole cambiamento del cap. XIX dell’Epoca IV, in cui è tolto l’accenno alla presa della Bastiglia e alla sua ode Parigi sbastigliato, di cui nella prima stesura dava una giustificazione disillusa, ma che non rinnegava come sincera espressione di un’emozione legata ad un fatto «a cui si potea pur dare un aspetto generoso, e che apriva il piú vasto e nobil campo a fare un vero gran popolo, che alcuna nazione avesse avuto forse mai» (II, pp. 216-217). La giustificazione assai misurata (insieme all’epigramma Nobili senza onore, che è riportato nella prima stesura come il «primo epigramma del Misogallo») venne semmai ripresa e modificata negli Avvenimenti del Misogallo, in cui però l’accenno all’ode e alla sua illusione è precisato in questi termini ben piú crudi: «Ma io qui, con mia somma vergogna, sono costretto di confessare candidamente, che in quel giorno della presa Bastiglia, credendo piuttosto quello che avrei desiderato, che non quel che era; io stesso stoltamente m’indussi a sperare un buon esito da sí fatto tumulto»[3].

Tuttavia non si creda che a questo inasprirsi del sentimento antifrancese e nazionalistico, alla luce delle vicende rivoluzionarie, corrisponda una diminuzione della tensione antitirannica (e si veda in proposito la precisazione semmai di p. 253, I, in cui nei riguardi dei re si insiste sull’orrore dal fatto che «il loro giovare o nuocere pendono dal loro assoluto volere», che può apparire l’avvio ad una distinzione dell’assolutismo regio da quella forma monarchica costituzionale che appare «antidoto» nell’omonima commedia), ché anzi lo sdegno contro i poteri assoluti e contro il militarismo si accresce nella nuova elaborazione, ed è proprio in questa che la descrizione del regno di Prussia trova la conclusiva definizione di «universal caserma prussiana» e «l’arte militare» diviene l’«infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria» (I, p. 98). Cosí come la descrizione del campo di battaglia di Zorendorf trova la sua vera conclusione nell’aggiunta essenziale: «Dovrei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio» (I, p. 105), e l’accenno alla visita fatta al principe vescovo di Liegi si precisa in un altro severo giudizio dell’assolutismo militarista: «E meno mi ripugnavano le Corti del Pastorale che quelle dello schioppo e tamburo, perché di questi due flagelli degli uomini non se ne può mai rider veramente di cuore» (I, p. 107). Nella quale ultima aggiunta non si può certo dire che si registri un cresciuto ossequio ai poteri ecclesiastici, sui quali, se si potrebbe notare la scomparsa dell’irriverente titolo di «Papasso» per il pontefice romano (II, p. 183), si deve anche calcolare l’aggiunta (Ep. IV, cap. X) circa il dubbio zelo «né evangelico, né puro dai secondi fini» dei preti che intrigavano contro l’Alfieri e la d’Albany a Roma, «poiché non pochi di essi coi lor tristi esempj faceano ad un tempo l’elogio della condotta mia, e la satira della loro propria» (I, p. 235).

Naturalmente già in alcuni degli esempi portati (specie in quello della descrizione del campo di battaglia di Zorendorf) si può osservare come lo sviluppo piú deciso di motivi caratteristici dell’animo alfieriano coincida con una piú distaccata e precisa volontà artistica, che mira a meglio graduare gli effetti della narrazione, ad accentuare il rilievo delle punte appassionate, a scavare piú nitidamente i paesaggi sentimentali in una coerenza ed in una prospettiva generale tanto piú sicura e in una utilizzazione piú armonica di tutte le possibilità poetiche insite nel racconto. Il ritratto romantico è reso piú animato e amoroso, e mentre le riflessioni lo arricchiscono in direzione di esemplarità universale, la migliore evidenza dello sviluppo narrativo nella sua suggestione romanzesca (si pensi per tutte alla narrazione dell’avventura londinese cosí diversamente efficace e complessa e vibrante nella nuova redazione) e la caratterizzazione piú forte dei lineamenti individuali dell’uomo e del poeta danno al ritratto alfieriano una maggiore profondità e incisività. I caratteri piú peculiari dell’animo appassionato e chiamato alla poesia si fanno piú intensi: l’amore per condizioni estreme (l’aggiunta caratteristica alla descrizione del primo viaggio nella Francia del Nord in un freddo intenso: «e quest’eccesso mi rallegrava, perché io per natura non gradisco le cose di mezzo», I, p. 86), gli eccessi di furore e di malinconia, gli sfoghi di pianto legati ad inespressi impeti di poesia sono tratteggiati tanto piú chiaramente.

E basti citare tutta la diversa coloritura sentimentale del viaggio attraverso i «vasti deserti dell’Arragona», con l’aggiunta del finale senza cui l’episodio sarebbe tanto piú prosastico e inconcludente. Nella prima stesura si legge:

Disgrazia mia, e forse fortuna d’altri, che io in quel viaggio non avessi mezzo nessuno di spiegare in versi i miei pensieri, che avrei versato un diluvio di rime: tanti erano i diversi affetti, ora di dolore, or di pensieri morali, or di imagini delle diverse cose vedute, e che tuttora mi si appresentavano. Ma non avendo nessuna lingua, e non mi pensando neppure di poter mai quando che fosse scrivere né in versi né in prosa, io mi contentava di ruminar fra me stesso (II, p. 107).

Nella stesura definitiva tutto è invece cosí sviluppato, approfondito e sostanzialmente indirizzato ad un’alta poetica conclusione:

Disgrazia mia (ma forse fortuna d’altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono (I, p. 127).

E per quanto riguarda la vibrazione romantica del paesaggio (deserti spagnoli, selve e laghi ghiacciati del Nord), è ancora la nuova stesura che ne determina la risonanza piú vasta: cosí alla fine del cap. VIII dell’Epoca III, mentre la prima stesura diceva: «Continuai il divertimento della slitta, per quelle selve, e per quei laghi» (II, p. 86), la seconda con pochi cambiamenti fa acquistare al periodo una ben altra capacità di suggestione del paesaggio e del protagonista uniti nell’aura di tensione e di fantasia: «Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati» (I, p. 101). Dove si può avvertire persino un certo compiacimento del letterato che, nel ripensamento piú distaccato, carica la scena già prima delineata e con calma prepara, su di una base già compatta e ricca, effetti di violenza, infittisce le linee piú vigorose del proprio ritratto.

In realtà, se si deve attribuire alla rielaborazione della Vita una specie di rianimazione della fantasia e del sentimento a contatto dei ricordi evocati dalla vecchia stesura e quindi come un nuovo momento creativo essenziale ad ogni rielaborazione che non sia una semplice ripulitura formale, bisogna anche chiaramente dire che è proprio nel maggiore distacco, nel maggiore dominio della propria materia sentimentale che l’Alfieri ottenne quella generale accentuazione di toni romantici, portò il suo linguaggio alle sue forme piú caratteristiche e originali, con i suoi accrescitivi irosi ed ironici, con i suoi superlativi, con i suoi neologismi tutti affermati nella nuova stesura[4].

E mentre non solo il linguaggio scarta forme approssimative e spurie (ad esempio l’«evaluare» di p. 103, II), ma tutto l’organismo sintattico si fa piú articolato ed elastico, complesso e sicuro, la chiara forza di dominio piú matura si rivela nella maggiore mobilità dell’ironia che anima di gradazioni sottili ritratti e caricature spesso rese vibranti con il diverso uso di un diminutivo ironico, come nel caso di quei «pretacchiuoli» romani fra i quali l’Alfieri si aggira con tanto disprezzo. Cosí come alla piú sicura coscienza stilistica corrisponde una esplicita attenzione ai problemi dello stile[5], un nuovo rilievo alla difficile conquista della lingua, una considerazione piú severa delle opere poetiche e un gusto critico piú deciso e autorevole.

E insieme, a chiudere queste rapide note su di un elemento costitutivo dell’animo alfieriano degli ultimi anni, la maggiore sicurezza dello stilista e dell’uomo che giudica e si giudica si appoggia ad una saggezza piú disillusa e profonda, ad un senso piú alto di affetti essenziali (l’amore, l’amicizia – e si veda I, p. 204), che ben si collegano all’atteggiamento da me segnalato nelle lettere di quegli anni[6].


1 Vol. CXXVII (1950), pp. 228-230.

2 La stesura definitiva è nel I volume, la prima è nel II.

3 Scritti politici e morali, III cit., p. 222.

4 Come fra gli altri: «idee Achillesche» (24), «papaverica filosofia» (40), «sparruccatomi» (53), «il primo grado della scala dottoresca» (52), «giovenilmente plutarchizzando» (98), «Clitennestra filosofessa» (104), «prussianerie» (105), «Tedescheria» (106), «intoscanito» (196), «spiemontizzarmi» (211), «disvassallarmi» (212), «oltramontaneria» (217), «gallicheria» (217), «Incavallatomi» (247), «inezie cavalline» (250), «aurigare» (261), ecc. E fra i nuovi diminutivi, accrescitivi e superlativi ironici o accentuanti disprezzo o ammirazione, senso di idillio e di vastità indefinita: «ignorantuccio» (13), «doloruzzo» (16), «omiccino» (17), «cupe selvone», «lagoni crostati» (101), «epico fiumone» (106), ecc.

5 Nel ricordare la poco fruttuosa ricerca di consigli, nel 1783, presso il Parini e il Cesarotti, l’Alfieri chiarirà nella seconda stesura la sua scontentezza a proposito delle osservazioni fattegli dall’autore del Giorno, sviluppando ben piú chiaramente un primo accenno – «d’alcune cose mi avvertí» (II, p. 187) – in questo significativo giudizio: «mi avvertí di varie cose, non molto a dir vero importanti, e che tutte insieme non poteano mai costituire la parola Stile, ma alcune delle menome parti di esso» (I, p. 241).

6 V. Le lettere dell’Alfieri, qui a pp.137-150.